mercoledì 25 ottobre 2017

IL CONCETTO IN LOGICA



IL CONCETTO IN LOGICA

di Franco Biagioni


Leggiamo in Vittorio Possenti: La filosofia dopo il nichilismo, Rubbettino editore 2001, a pag 18:
“l’accettazione del presupposto kantiano sulla separazione fra pensare ed essere trasforma … il concetto di verità da una relazione fra mente e cose, ossia fra soggetto e oggetti, in una relazione fra oggetti, in cui non sarebbe mai possibile verificare la corrispondenza…”

Il guasto metafisico e gnoseologico, ha un riscontro a livello logico: si consideri il tema dell’interpretazione. L’interpretazione è il processo mediante il quale il soggetto riferisce un segno all’oggetto che il segno stesso designa: nella concezione classica è l’ istituzione del rapporto fra segno (verbale o grafico: significante: semaion) e il concetto (significato: lektòn): l’istituzione di questo rapporto consente altresì di connettere il segno, mediante il concetto (intentio), all’oggetto inteso nel concetto stesso (designato: semainomènon): il semaion ed il semainomènon sono realtà corporee e tangibili; il lektòn ha una realtà solo mentale. Questa concezione può esser fatta risalire ad Aristotele[1][1] ed agli  Stoici. Sesto Empirico, che la confutava, così la descrive: “Gli stoici affermano che tre cose sono fra loro connesse: il significato, il significante e la cosa esistente: tra queste il significante è la voce, per esempio la parola Dione; il significato è appunto ciò che viene indicato dalla voce e che noi apprendiamo come esistente in dipendenza dal nostro pensiero, mentre i barbari, pur ascoltando la voce che lo indica, non lo comprendono; infine la cosa esistente è ciò che si trova fuori di noi, per esempio Dione in persona. Di queste tre cose, due sono corpi, la voce e la cosa esistente, una è incorporea, ossia quello che è significato ed esprimibile (lektòn, il concetto); e proprio questo è vero o falso. E non è in ogni caso vero o falso, potendo essere incompleto o completo. Tra gli esprimibili completi è vero o falso quello che chiamiano proposizione, che gli stoici descrivono appunto dicendo “ciò che è vero o falso””.
La questione dell’intelligenza artificiale e, più in generale, della filosofia della mente e della filosofia analitica di indirizzo cognitivista, può essere illuminata dalla considerazione del modo in cui si pone il processo dell’interpretazione: ed anche in questa prospettiva, si può arrivare alla conclusione che la filosofia della mente non è poi una novità assoluta. Ho detto sopra che Sesto Empirico riporta la teoria degli Stoici per confutarla: infatti, fin dall’antichità, le concezioni di tendenza empirista hanno adottato uno schema profondamente diverso da quello descritto. La teoria ora esposta fa perno su tre elementi: segno: “il significante è la voce, per esempio la parola Dione”;  concetto: “il significato è ciò che viene indicato dalla voce e che noi apprendiamo come esistente in dipendenza del nostro pensiero”: apprendiamo come esistente è un’affermazione impegnativa, significa predicare l’esistenza di una cosa, in dipendenza del nostro pensiero, cioè di un atto conoscitivo del nostro intelletto, che ci mostra quello che è e quello che non è; oggetto: cioè “la cosa esistente che si trova fuori di noi”. Di questi tre elementi, è il secondo quello che ha subito le maggiori contestazioni: quando si afferma che “il problema del significato esclude la possibilità di una soluzione naturalistica” (Marino Rosso), si esprime la nostalgia di questo schema tripartito dell’interpretazione, nella sua integrità; mentre lo sforzo di ogni concezione empiristica è quello di creare un collegamento diretto fra il segno e l’oggetto, che sia capace di saltare il secondo elemento. Questo mi sembra particolarmente evidente nel Wittgenstein del Tractatus (diversa la posizione nella Ricerche), ma in realtà è un filone che percorre tutta la storia del pensiero occidentale, e che ha avuto negli ultimi secoli, in virtù dello sviluppo delle scienze cosiddette “dure” un motivo di particolare fiducia. Ma già nel Medio Evo, nella concezione del nominalismo, si afferma che l’unica conoscenza certa è la conoscenza dell’ente singolare: il concetto è un segno della cosa, e sta in luogo di essa nelle proposizioni, in cui l’analisi logica dei termini permette di evidenziare la struttura ontologica della realtà[2][2]: nella mente, che si comporta come specchio fedele della realtà, sono presenti solo elementi singoli ed individuali: la parola, come segno del concetto che perde il proprio valore astrattivo, si avvia a diventare segno (denotazione) dell’oggetto: per Guglielmo d’Ockam non si dà conoscenza intellettuale astrattiva in contrapposto alla conoscenza intuitiva, ma ogni forma di conoscenza è intuitiva; conseguentemente, egli critica il concetto di sostanza, affermando che essa non è percepibile come reale, ma può essere colta solo attraverso le sue determinazioni accidentali (in questa linea egli può configurarsi come precursore dell’atomismo logico). Venendo ai nostri tempi, nella filosofia analitica, e anche nel positivismo logico, avviene lo scavalcamento del concetto, per collegare direttamente il segno all’oggetto, nella denotazione o nell’uso (tipica l’espressione “uso linguistico”). Questo passaggio comporta la perdita della possibilità di fare certe operazioni possibili sul concetto, ma che non sono possibili sull’oggetto: dell’oggetto non si può che prendere atto (o inserirlo in un reticolo di rapporti logici, come Russel, o in uno stato di cose, come Wittgenstein); del concetto invece si può “ragionare”, lo si può confrontare con categorie. Inoltre: se il segno (la parola) è un denotato di un oggetto, lo è in un rapporto puramente convenzionale: solo all’interno di un determinato uso linguistico ha valore; se il segno (la parola) è segno di un concetto, tra questo concetto e l’oggetto il rapporto è di necessità. Tra semaion e lektòn esiste un rapporto convenzionale; tra lektòn e semainomenon esiste un rapporto necessario. Nessuna parola è tale per essenza, afferma Aristotele nel De interpretazione: ogni parola, però, nel contesto della lingua, è riferimento a un concetto che, in qualsiasi lingua venga espresso, resta sempre tale.
L’adozione di uno schema interpretativo bilaterale, esclude il problema del significato, come il problema del significato esclude la possibilità di una soluzione naturalistica: non si ha più una semantica, ma una sintassi, come sintassi è quella del calcolatore, e sintassi puramente convenzionale. Nel modo proprio di una filosofia che fa a meno del concetto, sembra quasi che la conoscenza si svolga fuori dal soggetto, nella corrispondenza degli elementi del discorso con gli elementi del reale: leggiamo invece Maritain: “è nel pensiero stesso che è attinta la realtà extramentale, nel concetto stesso che il reale è toccato e maneggiato, è lì che è appreso… l’intelletto è una vita superiore a tutto l’ordine della spazialità, che, senza uscire da se stessa si perfeziona di ciò che essa non è, di questo reale intelligibile di cui assorbe dai sensi la feconda sostanza…”. Lo schema che possiamo definire trilaterale, introduce qualcosa che noi apprendiamo come esistente, in virtù del nostro pensiero: qualcosa di esistente è anche qualcosa di necessario, e noi lo apprendiamo in virtù del nostro pensiero, perché il nostro pensiero può appropriarsene e giudicare della sua esistenza: in questo, in fondo, sta il senso.
Si ripropone il problema: se posso avere una conoscenza vera di qualcosa che è fuori di me, se posso riferirmi a qualcosa che esiste in sé, o se sono confinato nell’ambito di ciò che esiste per me: il senso esiste per me o esiste in sé? Se concetto è il riferimento del temine, ma il riferimento del concetto è l’esistenza, che ci porta al tempo stesso nel profondo di noi stessi e fuori di noi, la conoscenza è affermazione della nostra esistenza, del nostro essere in atto, e al tempo stesso affermazione dell’esistenza del “mondo esterno”, come da esistente ad esistente: di essere cioè in sintonia con l’ordine delle cose: la razionalità con cui le cose sono fatte non è diversa da quella con cui esse sono conosciute: la forma è ciò che fa di una cosa quello che essa è e al tempo stesso è ciò che la rende conoscibile. Per questo esse rei est quoddam lumen eius:  e il senso che esiste per se è lo stesso che mi si rivela. Ma se noi potessimo solo porre un intreccio di parole (o di stati discreti della mente) accanto all’intreccio delle cose, non faremmo che duplicare le cose interpretandole senza afferrarle come esistenti, senza sapere nulla della verità. Un quadro destinato ad essere vittima del tempo nel momento stesso della sua nascita: invece il concetto è atto al disopra del tempo, perché è atto e perché astrae dall’essere le cose nel tempo: postula la nostra vita al disopra del tempo, la capacità dell’intelletto di elevarsi al disopra del tempo, superando l’aspetto contingente del riferimento, che pure è l’unico dato di partenza. Per questo la conoscenza può essere al tempo stesso vera e capace di sempre ulteriore approfondimento, mentre se la conoscenza si fonda su stati discreti della mente, ogni nuovo stato esclude la storia di quelli precedenti.
L’intelletto come attività dell’anima è d’altra parte così inerente al corpo da escludere ogni visione dualistica: anima e corpo formano un solo essere, un corpo animato, ed è questo corpo, animato da questa anima, che pensa: se leggiamo Tommaso, De ente et essentia,  n. 13: … l’anima non è una forma diversa da quella per la quale in quella cosa (nel corpo, che “può essere preso anche in modo da significare una cosa che ha tal forma –materia segnata- qualunque sia quella forma, sia che da essa possa pervenire una ulteriore perfezione, sia che no”) si potevano designare le tre dimensioni; n.37: …dall’anima e dal corpo risulta un solo essere in un solo composto. E la conoscenza nasce anche dal corpo, nasce dai sensi, che sono la prima forma di apprensione, che si apre al processo astrattivo.
Se l’alternativa, nella terminologia oggi in uso, può ridursi a quella fra mente ed intelletto, la differenza che qualifica l’intelletto è l’intentio. E dietro l’intentio, come abbiamo osservato, emerge l’esistenza ed il senso. La differenza fondamentale, quella che può fondare il senso, è l’esistenza: secondo Tommaso d’Aquino prima operatio intellectus respicit quidditatem rei: la prima operazione dell’intelletto è “vedere” l’essenza: l’intelletto è capacità intuitiva e astrattiva: la prima operazione è vedere l’essenza della cosa: ma non è l’operazione decisiva, perché l’essenza intuita ancora non dice dell’esistenza della cosa e quindi della verità: secunda (operatio) respicit esse ipsius (rei).  Et quia ratio veritatis fundatur in esse et non in quidditate, ideo veritas et falsitas proprie invenitur in secunda operatione, et in signo eius quod est enuntiatio, et non in prima, vel in signo eius quod est definitio. Quasi in una sequenza tratta da vari luoghi delle opere di Tommaso, possiamo così enunciare i principi fondanti del realismo tomista;
-          Esse est actualitas omnis rei (S.Th 1 q.4 a.1)
-          Actualitas rei est  quoddam lumen eius (Comm. liber de causis, prop 6)
-          Veritas fundatur in esse rei magis quam in ipsa quidditate, sicut nomen entis ad esse imponitur (I Sent, d.19, q.5,a.1) oppure: ratio veritatis fundatur in esse et non in quidditate
-          Veritas sequitur esse rerum - Entitas rei praecedit rationem veritatis, sed cognitio est quidam veritatis effectus (De Veritate, q1,a1,c).

Nella questione quarta, “Le idee”, del De Veritate, troviamo la distinzione fra Verbum cordis (concetto), verbum quod habet imagine vocis (verbum cum sillabis cogitatum), verbum vocis (verbum oris); e leggiamo: oportet quod verbum interius sit illud quod significatur per exterius verbum (De veritate q.4 a1). Sappiamo come in Tommaso si intersecano gnoseologia, ontologia, psicologia, con l’affermazione di una certa precedenza  della gnoseologia rispetto alla psicologia: l’anima umana trova la sua perfezione nella perfezione dell’atto che le è proprio: l’atto di conoscere, secondo il principio potentia specificatur ab actu. Ma anche la logica è sottoposta a questo criterio di specificazione, e lo è nei confronti dell’ontologia: presupposto della logica è l’esistenza: infatti nel comporre il triangolo oggetto/concetto/segno, se non è data l’esistenza dell’oggetto inteso come datum, esterno al soggetto e percepibile nell’esistenza, manca addirittura uno dei termini. Il problema ha due risvolti: se viene prima l’essere o il pensiero; se viene prima il pensiero o il linguaggio: la soluzione che accogliamo, perfettamente in linea con quella della metafisica “classica”, non ha dubbi: cum verbum interius sit id quod intellectum est, nec hoc sit in nobis nisi secundum quod actu intelligimus, verbum interius semper requisit intellectum in actu suo qui est intelligere De Veritate, q.  IV a. 1, ad 1m.. Forse si potrebbe sintetizzare così: la forma del linguaggio non è forma sostanziale (essa sta all’oggetto), non è nemmeno forma logica (essa sta al concetto), ma è forma poietica, che sta al segno prodotto nel linguaggio, cioè la parola, e rispecchia (è analoga a) la forma logica a cui fa riferimento la forma sostanziale: la parola è segno del concetto (secondo la forma poietica), il concetto è segno dell’oggetto (secondo la forma logica): all’origine della forma logica e della forma poietica sta la forma sostanziale, cioè la sostanza della cosa, che deve essere in atto (cioè esistere), per poter essere intelligibile. Ne consegue che è l’essere la condizione trascendentale del conoscere, e che, mentre il conoscere non partecipa del “fare”, ne partecipa invece il linguaggio.
Può essere utile, quale ulteriore chiarimento, proporre questo schema sintetico, dedotto dalla concezione rosminiana, intesa quale moderna riassunzione della concezione classica:

Esperienza: sentimento fondamentale
Passività dei sensi
Pura percezione sensibile, affezione
Percezione sensitiva
Sentimento fondamentale
Percezione dell’identità del corpo

Attività dell’anima

Percezione intellettiva

Essere

Essere ideale
Principio di oggettività della conoscenza
Essere reale
Fondamento e principio della realtà
Essere morale
Identità di bene ed essere
Ogni cosa è buona nella misura in cui corrisponde all’essere che le compete nell’ordinamento universale
L’idea dell’essere come lume della ragione ci consente di comprendere tale ordine e di realizzarlo

Anche se tale schema paga un certo tributo alla visione platonico-agostiniana delle idee innate, introducendo l’essere ideale, resta fermo che fondamento della conoscenza, della possibilità di conoscere è l’essere, sia reale che ideale. Dal sentimento fondamentale, che è l’esperienza dell’essere di noi stessi, origina la posizione dell’essere: non cogito, ergo sum, ma io sono, quindi l’essere è.
Sembra a questo punto fondamentale sottolineare l’ importanza del concetto di “esperienza” quale fondamento del pensiero (della metafisica), come fa larga parte della metafisica classica (per ultimo –in ordine di tempo- ricorderei Enrico Berti, Avviamento alla metafisica): nell’esperienza è compreso il trascendente e l’immanente (nel senso in cui li intende Husserl): nell’esperienza il mondo dell’esistenza e quello della conoscenza diventano omogenei. Qui il vecchio problema se posso avere una conoscenza vera di qualcosa che è fuori di me, se posso riferirmi a qualcosa che esiste in sé, o se sono confinato nell’ambito di ciò che esiste per me, sembra quasi dissolversi nel grembo dell’esperienza.

Franco Biagioni


Due ultime notazioni su verità e realtà: abbiamo capito che la verità non sono le cose e che la verità non è nemmeno un criterio di giudizio che possa risiedere dentro di noi. La prima notazione la affidiamo a G. Cottier, Definizione e tipologia dell’ateismo, pag. 34: “In questo senso dobbiamo dar ragione a Cornelio Fabro quando vede nel cogito cartesiano, con la sua principale implicazione, l’inversione fra certezza e verità, che fa della prima il fondamento della seconda, la matrice dell’ateismo moderno”:.
L’altra a Giovanni Casoli, in Nuova Umanità n. 102 (1995/6) pag. 36: “La verità significa corrispondenza del pensiero e della parola alla cosa, corrispondenza la cui fonte all’origine è in Dio, suprema verità. Realtà è una parola creata dal grande teologo Duns Scoto nel tardo medio evo, per significare  l’essere individuale, poi passa a significare l’esistenza concreta delle cose. Nel linguaggio comune slitta poco a poco a significare una cosa che esiste effettivamente, poi ciò che esiste oggettivamente. Anche la parola verità, allontanandosi dalle sue nobili origini, prima platonico aristoteliche, poi cristiane, che orientano ogni verità particolare all’universale Verità, si temporalizza senza incarnarsi, cioè si secolarizza, nella cultura rinascimentale: Leonardo: la verità è figlia del tempo. Ma anche la realtà era già diventata figlia del tempo, attraverso l’esperienza materialistica del mondo secolarizzato. A questo punto l’identificazione fra realtà e verità diventa possibile, e avviene nel Principe di Machiavelli: la verità effettuale delle cose: verità di fatto, verità reale concepita come l’unica”.
Alla luce di queste considerazioni, aggiungerei un’ultima osservazione sul principio della fallacia naturalistica: fermo restando che si ritiene inaccettabile detto principio nella sua espressione assoluta, per cui viene tolto valore cogente ad ogni proposizione etica, in quanto non fondabile su giudizi aletici, e in quanto solo le verità aletiche potrebbero essere argomentabili e quindi ragionevoli, invece “l’istanza minima del non cognotivismo è –e deve essere- universalmente accolta.  Essa consiste nella confutazione della possibilità di derivare il valore di un fatto dal suo semplice prodursi, di derivare cioè il giudizio di valore concernente un accadimento dal nudo giudizio di esistenza concernente quell’accadimento” (Lombardi Vallauri, Corso di Filosofia del Diritto, pag . 376). Dove il nudo giudizio di esistenza si situa sul piano della realtà, mentre il giudizio aletico si pone sul piano della verità.






[1][1]“ Ora, i suoni che sono nella voce sono simboli delle affezioni che sono nell’anima ed i segni scritti lo sono dei suoni che sono nella voce” (De Interpretatione, 16 a, 3-5)
[2][2] Nel concettualismo la conoscenza parte dal concetto, che si trova nella mente ed è confuso, ed approda alla cosa singolare, che appare di conoscenza chiara e sicura; per il realismo, la conoscenza della cosa singolare è il punto di partenza, da cui, attraverso l’astrazione, si arriva a conoscenze universali. E allora si scopre che il kantismo è immanente in ogni empirismo: la conoscenza che si ferma alle cose singolari  prima o poi richiede che si ponga nell’intelletto una legge che le ordini alla conoscenza. Quanti collegamenti fra empirismo nominalista e idealismo ideosofico!

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