IL CONCETTO IN LOGICA
di Franco Biagioni
Leggiamo in Vittorio Possenti: La
filosofia dopo il nichilismo, Rubbettino editore 2001, a pag 18:
“l’accettazione del
presupposto kantiano sulla separazione fra pensare ed essere trasforma … il
concetto di verità da una relazione fra mente e cose, ossia fra soggetto e
oggetti, in una relazione fra oggetti, in cui non sarebbe mai possibile
verificare la corrispondenza…”
Il guasto metafisico e gnoseologico, ha un riscontro a livello logico:
si consideri il tema dell’interpretazione. L’interpretazione è il processo
mediante il quale il soggetto riferisce un segno all’oggetto che il segno
stesso designa: nella concezione classica è l’ istituzione del rapporto fra
segno (verbale o grafico: significante: semaion) e il concetto (significato:
lektòn): l’istituzione di questo rapporto consente altresì di connettere il
segno, mediante il concetto (intentio), all’oggetto inteso nel concetto stesso
(designato: semainomènon): il semaion ed il semainomènon sono realtà corporee e
tangibili; il lektòn ha una realtà solo mentale. Questa concezione può esser
fatta risalire ad Aristotele[1][1] ed
agli Stoici. Sesto Empirico, che la
confutava, così la descrive: “Gli stoici affermano che tre cose sono fra loro
connesse: il significato, il significante e la cosa esistente: tra queste il significante è la voce, per esempio
la parola Dione; il significato è appunto
ciò che viene indicato dalla voce e che noi apprendiamo come esistente in
dipendenza dal nostro pensiero, mentre i barbari, pur ascoltando la voce che
lo indica, non lo comprendono; infine la
cosa esistente è ciò che si trova fuori di noi, per esempio Dione in
persona. Di queste tre cose, due sono corpi, la voce e la cosa esistente, una è
incorporea, ossia quello che è significato ed esprimibile (lektòn, il
concetto); e proprio questo è vero o falso. E non è in ogni caso vero o falso,
potendo essere incompleto o completo. Tra gli esprimibili completi è vero o
falso quello che chiamiano proposizione, che gli stoici descrivono appunto
dicendo “ciò che è vero o falso””.
La questione dell’intelligenza artificiale e, più in generale, della
filosofia della mente e della filosofia analitica di indirizzo cognitivista,
può essere illuminata dalla considerazione del modo in cui si pone il processo
dell’interpretazione: ed anche in questa prospettiva, si può arrivare alla
conclusione che la filosofia della mente non è poi una novità assoluta. Ho
detto sopra che Sesto Empirico riporta la teoria degli Stoici per confutarla:
infatti, fin dall’antichità, le concezioni di tendenza empirista hanno adottato
uno schema profondamente diverso da quello descritto. La teoria ora esposta fa
perno su tre elementi: segno: “il significante è la voce, per esempio la
parola Dione”; concetto: “il significato è ciò
che viene indicato dalla voce e che noi apprendiamo come esistente in
dipendenza del nostro pensiero”: apprendiamo come esistente è un’affermazione impegnativa, significa predicare
l’esistenza di una cosa, in dipendenza
del nostro pensiero, cioè di un atto conoscitivo del nostro intelletto, che
ci mostra quello che è e quello che non è; oggetto:
cioè “la cosa esistente che si trova
fuori di noi”. Di questi tre elementi, è il secondo quello che ha subito le
maggiori contestazioni: quando si afferma che “il problema del significato
esclude la possibilità di una soluzione naturalistica” (Marino Rosso), si
esprime la nostalgia di questo schema tripartito dell’interpretazione, nella
sua integrità; mentre lo sforzo di ogni concezione empiristica è quello di creare
un collegamento diretto fra il segno e l’oggetto, che sia capace di saltare il
secondo elemento. Questo mi sembra particolarmente evidente nel Wittgenstein
del Tractatus (diversa la posizione
nella Ricerche), ma in realtà è un
filone che percorre tutta la storia del pensiero occidentale, e che ha avuto
negli ultimi secoli, in virtù dello sviluppo delle scienze cosiddette “dure” un
motivo di particolare fiducia. Ma già nel Medio Evo, nella concezione del
nominalismo, si afferma che l’unica conoscenza certa è la conoscenza dell’ente
singolare: il concetto è un segno della cosa, e sta in luogo di essa nelle
proposizioni, in cui l’analisi logica dei termini permette di evidenziare la
struttura ontologica della realtà[2][2]: nella
mente, che si comporta come specchio fedele della realtà, sono presenti solo
elementi singoli ed individuali: la parola, come segno del concetto che perde
il proprio valore astrattivo, si avvia a diventare segno (denotazione)
dell’oggetto: per Guglielmo d’Ockam non si dà conoscenza intellettuale
astrattiva in contrapposto alla conoscenza intuitiva, ma ogni forma di
conoscenza è intuitiva; conseguentemente, egli critica il concetto di sostanza,
affermando che essa non è percepibile come reale, ma può essere colta solo
attraverso le sue determinazioni accidentali (in questa linea egli può
configurarsi come precursore dell’atomismo logico). Venendo ai nostri tempi,
nella filosofia analitica, e anche nel positivismo logico, avviene lo
scavalcamento del concetto, per collegare direttamente il segno all’oggetto,
nella denotazione o nell’uso (tipica l’espressione “uso linguistico”). Questo
passaggio comporta la perdita della possibilità di fare certe operazioni
possibili sul concetto, ma che non sono possibili sull’oggetto: dell’oggetto
non si può che prendere atto (o inserirlo in un reticolo di rapporti logici,
come Russel, o in uno stato di cose, come Wittgenstein); del concetto invece si
può “ragionare”, lo si può confrontare con categorie. Inoltre: se il segno (la
parola) è un denotato di un oggetto, lo è in un rapporto puramente
convenzionale: solo all’interno di un determinato uso linguistico ha valore; se
il segno (la parola) è segno di un concetto, tra questo concetto e l’oggetto il rapporto è di necessità. Tra
semaion e lektòn esiste un rapporto convenzionale; tra lektòn e semainomenon
esiste un rapporto necessario. Nessuna
parola è tale per essenza, afferma Aristotele nel De interpretazione: ogni parola, però, nel contesto della lingua, è
riferimento a un concetto che, in qualsiasi lingua venga espresso, resta sempre
tale.
L’adozione di uno schema interpretativo bilaterale, esclude il
problema del significato, come il problema del significato esclude la
possibilità di una soluzione naturalistica: non si ha più una semantica, ma una
sintassi, come sintassi è quella del calcolatore, e sintassi puramente
convenzionale. Nel modo proprio di una filosofia che fa a meno del concetto,
sembra quasi che la conoscenza si svolga fuori dal soggetto, nella
corrispondenza degli elementi del discorso con gli elementi del reale: leggiamo
invece Maritain: “è nel pensiero stesso che è attinta la realtà extramentale,
nel concetto stesso che il reale è toccato e maneggiato, è lì che è appreso…
l’intelletto è una vita superiore a tutto l’ordine della spazialità, che, senza
uscire da se stessa si perfeziona di ciò che essa non è, di questo reale
intelligibile di cui assorbe dai sensi la feconda sostanza…”. Lo schema che
possiamo definire trilaterale, introduce qualcosa che noi apprendiamo come esistente, in virtù del nostro pensiero: qualcosa
di esistente è anche qualcosa di necessario, e noi lo apprendiamo in virtù del
nostro pensiero, perché il nostro pensiero può appropriarsene e giudicare della
sua esistenza: in questo, in fondo, sta il senso.
Si ripropone il problema: se posso avere una conoscenza vera di
qualcosa che è fuori di me, se posso riferirmi a qualcosa che esiste in sé, o
se sono confinato nell’ambito di ciò che esiste per me: il senso esiste per me o esiste in sé? Se concetto è il riferimento del temine, ma il riferimento
del concetto è l’esistenza, che ci
porta al tempo stesso nel profondo di noi stessi e fuori di noi, la conoscenza
è affermazione della nostra esistenza, del nostro essere in atto, e al tempo
stesso affermazione dell’esistenza del “mondo esterno”, come da esistente ad
esistente: di essere cioè in sintonia con l’ordine delle cose: la razionalità
con cui le cose sono fatte non è diversa da quella con cui esse sono
conosciute: la forma è ciò che fa di una cosa quello che essa è e al tempo
stesso è ciò che la rende conoscibile. Per questo esse rei est quoddam lumen eius:
e il senso che esiste per se è
lo stesso che mi si rivela. Ma se noi
potessimo solo porre un intreccio di parole (o di stati discreti della mente)
accanto all’intreccio delle cose, non faremmo che duplicare le cose
interpretandole senza afferrarle come esistenti, senza sapere nulla della
verità. Un quadro destinato ad essere vittima del tempo nel momento stesso
della sua nascita: invece il concetto è atto al disopra del tempo, perché è
atto e perché astrae dall’essere le cose nel tempo: postula la nostra vita al
disopra del tempo, la capacità dell’intelletto di elevarsi al disopra del
tempo, superando l’aspetto contingente del riferimento, che pure è l’unico dato
di partenza. Per questo la conoscenza può essere al tempo stesso vera e capace
di sempre ulteriore approfondimento, mentre se la conoscenza si fonda su stati
discreti della mente, ogni nuovo stato esclude la storia di quelli precedenti.
L’intelletto come attività dell’anima è d’altra parte così inerente al
corpo da escludere ogni visione dualistica: anima e corpo formano un solo
essere, un corpo animato, ed è questo corpo, animato da questa anima, che
pensa: se leggiamo Tommaso, De ente et
essentia, n. 13: … l’anima non è una
forma diversa da quella per la quale in quella cosa (nel corpo, che “può essere
preso anche in modo da significare una cosa che ha tal forma –materia segnata-
qualunque sia quella forma, sia che da essa possa pervenire una ulteriore
perfezione, sia che no”) si potevano designare le tre dimensioni; n.37:
…dall’anima e dal corpo risulta un solo essere in un solo composto. E la
conoscenza nasce anche dal corpo, nasce dai sensi, che sono la prima forma di
apprensione, che si apre al processo astrattivo.
Se l’alternativa, nella terminologia oggi in uso, può ridursi a quella
fra mente ed intelletto, la differenza che qualifica l’intelletto è l’intentio. E dietro l’intentio, come abbiamo osservato, emerge
l’esistenza ed il senso. La differenza fondamentale, quella che può fondare il
senso, è l’esistenza: secondo Tommaso d’Aquino prima operatio intellectus respicit quidditatem rei: la prima
operazione dell’intelletto è “vedere” l’essenza: l’intelletto è capacità
intuitiva e astrattiva: la prima operazione è vedere l’essenza della cosa: ma
non è l’operazione decisiva, perché l’essenza intuita ancora non dice
dell’esistenza della cosa e quindi della verità: secunda (operatio) respicit esse ipsius (rei). Et quia
ratio veritatis fundatur in esse et non in quidditate, ideo veritas et falsitas
proprie invenitur in secunda operatione, et in signo eius quod est enuntiatio,
et non in prima, vel in signo eius quod est definitio. Quasi in una
sequenza tratta da vari luoghi delle opere di Tommaso, possiamo così enunciare
i principi fondanti del realismo tomista;
-
Esse est actualitas omnis rei (S.Th 1 q.4 a.1)
-
Actualitas rei est quoddam lumen
eius (Comm. liber de causis, prop 6)
-
Veritas
fundatur in esse rei magis quam in ipsa quidditate, sicut nomen entis ad esse
imponitur (I Sent, d.19, q.5,a.1) oppure: ratio veritatis fundatur in esse et non in
quidditate
-
Veritas
sequitur esse rerum - Entitas rei praecedit rationem veritatis, sed cognitio
est quidam veritatis effectus (De
Veritate, q1,a1,c).
Nella questione quarta, “Le idee”, del De Veritate, troviamo la distinzione fra Verbum cordis (concetto), verbum quod habet imagine vocis (verbum cum
sillabis cogitatum), verbum vocis (verbum oris); e leggiamo: oportet quod verbum interius sit illud quod
significatur per exterius verbum (De veritate q.4 a1). Sappiamo come in
Tommaso si intersecano gnoseologia, ontologia, psicologia, con l’affermazione
di una certa precedenza della
gnoseologia rispetto alla psicologia: l’anima umana trova la sua perfezione
nella perfezione dell’atto che le è proprio: l’atto di conoscere, secondo il
principio potentia specificatur ab actu.
Ma anche la logica è sottoposta a questo criterio di specificazione, e lo è nei
confronti dell’ontologia: presupposto della logica è l’esistenza: infatti nel
comporre il triangolo oggetto/concetto/segno, se non è data l’esistenza
dell’oggetto inteso come datum,
esterno al soggetto e percepibile nell’esistenza, manca addirittura uno dei
termini. Il problema ha due risvolti: se viene prima l’essere o il pensiero; se
viene prima il pensiero o il linguaggio: la soluzione che accogliamo,
perfettamente in linea con quella della metafisica “classica”, non ha dubbi: cum verbum interius sit id quod intellectum
est, nec hoc sit in nobis nisi secundum quod actu intelligimus, verbum interius
semper requisit intellectum in actu suo qui est intelligere De Veritate,
q. IV a. 1, ad 1m.. Forse si potrebbe
sintetizzare così: la forma del linguaggio non è forma sostanziale (essa sta
all’oggetto), non è nemmeno forma logica (essa sta al concetto), ma è forma
poietica, che sta al segno prodotto nel linguaggio, cioè la parola, e
rispecchia (è analoga a) la forma logica a cui fa riferimento la forma
sostanziale: la parola è segno del concetto (secondo la forma poietica), il
concetto è segno dell’oggetto (secondo la forma logica): all’origine della
forma logica e della forma poietica sta la forma sostanziale, cioè la sostanza
della cosa, che deve essere in atto (cioè esistere), per poter essere
intelligibile. Ne consegue che è l’essere la condizione trascendentale del
conoscere, e che, mentre il conoscere non partecipa del “fare”, ne partecipa
invece il linguaggio.
Può essere utile, quale ulteriore chiarimento, proporre questo schema
sintetico, dedotto dalla concezione rosminiana, intesa quale moderna
riassunzione della concezione classica:
Esperienza: sentimento fondamentale
Passività dei sensi
|
Pura
percezione sensibile, affezione
|
Percezione
sensitiva
|
Sentimento fondamentale
|
Percezione
dell’identità del corpo
|
|
Attività dell’anima
|
Percezione
intellettiva
|
Essere
Essere ideale
|
Principio di oggettività della conoscenza
|
Essere reale
|
Fondamento e principio della realtà
|
Essere morale
|
Identità di bene ed essere
Ogni cosa
è buona nella misura in cui corrisponde all’essere che le compete
nell’ordinamento universale
L’idea
dell’essere come lume della ragione ci consente di comprendere tale ordine e
di realizzarlo
|
Anche se tale schema paga un certo tributo alla visione
platonico-agostiniana delle idee innate, introducendo l’essere ideale, resta
fermo che fondamento della conoscenza, della possibilità di conoscere è
l’essere, sia reale che ideale. Dal sentimento fondamentale, che è l’esperienza
dell’essere di noi stessi, origina la posizione dell’essere: non cogito, ergo sum, ma io sono, quindi l’essere è.
Sembra a questo punto fondamentale sottolineare l’ importanza del
concetto di “esperienza” quale fondamento del pensiero (della metafisica), come
fa larga parte della metafisica classica (per ultimo –in ordine di tempo-
ricorderei Enrico Berti, Avviamento alla
metafisica): nell’esperienza è compreso il trascendente e l’immanente
(nel senso in cui li intende Husserl): nell’esperienza il mondo dell’esistenza
e quello della conoscenza diventano omogenei. Qui il vecchio problema se posso
avere una conoscenza vera di qualcosa che è fuori di me, se posso riferirmi a
qualcosa che esiste in sé, o se sono confinato nell’ambito di ciò che esiste
per me, sembra quasi dissolversi nel grembo dell’esperienza.
Franco Biagioni
Due ultime notazioni su verità e realtà: abbiamo capito che la verità
non sono le cose e che la verità non è nemmeno un criterio di giudizio che
possa risiedere dentro di noi. La prima notazione la affidiamo a G. Cottier, Definizione e tipologia dell’ateismo,
pag. 34: “In questo senso dobbiamo dar
ragione a Cornelio Fabro quando vede nel cogito cartesiano, con la sua
principale implicazione, l’inversione fra certezza e verità, che fa della prima
il fondamento della seconda, la matrice dell’ateismo moderno”:.
L’altra a Giovanni Casoli, in Nuova Umanità n. 102 (1995/6) pag. 36: “La verità significa corrispondenza del
pensiero e della parola alla cosa, corrispondenza la cui fonte all’origine è in
Dio, suprema verità. Realtà è una parola creata dal grande teologo Duns Scoto
nel tardo medio evo, per significare
l’essere individuale, poi passa a significare l’esistenza concreta delle
cose. Nel linguaggio comune slitta poco a poco a significare una cosa che
esiste effettivamente, poi ciò che esiste oggettivamente. Anche la parola
verità, allontanandosi dalle sue nobili origini, prima platonico aristoteliche,
poi cristiane, che orientano ogni verità particolare all’universale Verità, si
temporalizza senza incarnarsi, cioè si secolarizza, nella cultura
rinascimentale: Leonardo: la verità è figlia del tempo. Ma anche la realtà era
già diventata figlia del tempo, attraverso l’esperienza materialistica del
mondo secolarizzato. A questo punto l’identificazione fra realtà e verità
diventa possibile, e avviene nel Principe di Machiavelli: la verità
effettuale delle cose: verità di fatto, verità reale concepita come
l’unica”.
Alla luce di queste considerazioni,
aggiungerei un’ultima osservazione sul principio della fallacia naturalistica:
fermo restando che si ritiene inaccettabile detto principio nella sua
espressione assoluta, per cui viene tolto valore cogente ad ogni proposizione
etica, in quanto non fondabile su giudizi aletici, e in quanto solo le verità
aletiche potrebbero essere argomentabili e quindi ragionevoli, invece “l’istanza minima del non cognotivismo è –e
deve essere- universalmente accolta.
Essa consiste nella confutazione della possibilità di derivare il valore
di un fatto dal suo semplice prodursi, di derivare cioè il giudizio di valore
concernente un accadimento dal nudo giudizio di esistenza concernente
quell’accadimento” (Lombardi Vallauri, Corso
di Filosofia del Diritto, pag . 376). Dove il nudo giudizio di esistenza si situa sul piano della realtà, mentre
il giudizio aletico si pone sul piano
della verità.
[1][1]“
Ora, i suoni che sono nella voce sono simboli delle affezioni che sono
nell’anima ed i segni scritti lo sono dei suoni che sono nella voce” (De
Interpretatione, 16 a, 3-5)
[2][2] Nel concettualismo la conoscenza parte dal concetto,
che si trova nella mente ed è confuso, ed approda alla cosa singolare, che
appare di conoscenza chiara e sicura; per il realismo, la conoscenza della cosa
singolare è il punto di partenza, da cui, attraverso l’astrazione, si arriva a
conoscenze universali. E allora si scopre che il kantismo è immanente in ogni
empirismo: la conoscenza che si ferma alle cose singolari prima o poi richiede che si ponga
nell’intelletto una legge che le ordini alla conoscenza. Quanti collegamenti
fra empirismo nominalista e idealismo ideosofico!
Nessun commento:
Posta un commento